Il destino dei nazisti sopravvissuti fra storia e fantasia

La serie TV Hunters e un recente articolo del Financial Times Magazine (tradotto su Internazionale n. 1351) sollevano un tema delicato e spesso dimenticato: il destino dei criminali nazisti sopravvissuti.
Due storie che hanno recentemente attirato l’attenzione dei media: da una parte la fervida immaginazione di un autore nipote di una sopravvissuta, David Weil, dall’altra un evento storico che merita d’essere conosciuto.

L’ufficio centrale per le indagini sui crimini nazionalsocialisti

L’articolo di Tobias Buck Inside the Trial of a Nazi Concentration Camp Guard, pubblicato tradotto su Internazionale n. 1351 con il titolo Processo all’ultimo nazista, tratta di un fatto di attualità: il processo a Bruno Dey, ex guardia del campo di sterminio di Stutthof che ora ha 93 anni. L’articolo, però, coglie l’occasione per narrare una storia dimenticata e un po’ scomoda, quella della caccia ai nazisti sopravvissuti, con lo scopo di riportare degna giustizia al crimine peggiore dell’umanità.
Alla fine degli anni Cinquanta in Germania venne costruito il Zentrale Stelle (Ufficio centrale) per ricercare i criminali nazisti. Non molti tedeschi erano interessati a ricoprire un ruolo all’interno di questa istituzione. Ma non è il caso di Thomas Walther, un ex giudice regionale che ha superato i 75 anni, e dal 2006 lavora lì.
A Ludwigsburg, nel distretto di Stoccarda, in un ex carcere c’è l’ufficio di Walther. 720mila nomi di criminali, sospettati, collaboratori e testimoni del nazismo sono schedati in questi locali. Il loro scopo è trovare gli ex nazisti e dimostrare che sono stati direttamente coinvolto nel crimine.
L’operazione non è così semplice per una serie di motivi. Innanzitutto, per molti anni ci si era convinti che per incriminare un nazista bisognasse portare delle prove molto precise: il giorno e l’ora, e una serie di testimoni. Ma non è così ovvio mettere in relazione questi elementi nel caso di crimini perpetrati nei campi. L’intuizione di Walther rivoluziona il funzionamento dell’ufficio e, senza esagerare, anche della storia.

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Il caso di John Demjanjuk

Conosciuto anche con l’eloquente soprannome di Ivan il terribile, John era stato una guardia (si pensava a Treblinka), tristemente famosa per la sua crudeltà. Un tribunale israeliano l’aveva condannato, ma nel 1993 dovette annullare la sentenza perché molti indizi facevano pensare che non fosse mai stato a Treblinka; il nazista dunque era andato negli USA da uomo libero.
Il governo americano si accorse di lui e minacciò di estradarlo. Fu il fatto che la ex guardia non negò mai di aver ricoperto il ruolo (si scoprì poi che non fece la guardia a Treblinka ma a Sobibor) a dare il via a Walther: l’accusa doveva cambiare. Demjanjuk non doveva essere incolpato di un assassinio preciso, ma del campo stesso, inteso come fabbrica di morte. Secondo Walther l’operario di una ditta di auto è consapevole dell’obiettivo complessivo del lavoro suo e dei suoi colleghi, cioè la costruzione dell’auto; allo stesso modo le guardie, pur non conoscendo tutti i dettagli, contribuiscono consapevolmente all’operazione nell’insieme.
Condannato una prima volta, Demjanjuk morì prima che i giudici si pronunciassero sul suo ricorso in appello.

Il caso di Bruno Dey

Ad Amburgo, nonostante il Covid-19, si attende la ripresa del processo contro Bruno Dey il 14 aprile. Il 17 ottobre scorso si è aperto nella città tedesca il processo contro questa ex guardia nazista, accusato di complicità nell’uccisione di 5230 prigionieri nel campo di Stutthof. Ma quest’evento è ancor più importante per due motivi. Il primo è che forse di processi così non ce ne saranno più, a causa dell’avanzare dell’età degli imputati che moriranno di qui a poco; il secondo è a causa del recente successo (23%) alle regionali della Turingia del partito Afd (Alternative für Deutschland).
Alcuni leader dell’Afd, secondo Tobias Buck nella traduzione di Internazionale, «hanno cercato di conquistare consensi anche criticando il modo in cui il paese coltiva la sua memoria storica: vogliono che i tedeschi tornino a sentirsi orgogliosi del loro passato. E cercano di minimizzare l’importanza del periodo nazista».
Dunque un’occasione unica e irripetibile di far pace con la storia, riportando giustizia. Purtroppo la contingenza della vita ha fatto cadere quest’importante processo nell’epoca della pandemia del Covid-19 con il risultato che forse quest’evento avrà una risonanza inferiore a quella che merita.

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La fantasia della serie Hunters su Amazon Prime Video

Una serie da poco presente su Amazon Prime Video è Hunters (Cacciatori): il tema della caccia ai nazisti sembra aver successo anche nella finzione di intrattenimento.

Siamo nella New York del 1977, Jonah è un adolescente ebreo come tanti che vive in un ambiente difficile spacciando droga. Cresce con la nonna, che viene uccisa davanti ai suoi occhi in circostanze misteriose. Durante la cerimonia funebre, Meyer (Al Pacino) offre al ragazzo una spalla su cui piangere e un appoggio in caso di necessità. Di lì a poco, Jonah entra a far parte di un gruppo di improbabili personaggi dal trascorso burrascoso diretti da Meyer, i Cacciatori. Il loro scopo è perseguire e uccidere tutti i nazisti che hanno riparato in America all’indomani della caduta di Hitler. Loro antagonista è un misterioso gruppo di loschi individui che progettano un Quarto Reich.
Gli episodi sono lunghi circa un’ora ciascuno e la trama non perde mai di interesse, in un crescendo di tensione e colpi di scena. I fili della trama non sono mai troppi o troppo intricati, dunque è semplice seguire la narrazione.

Senza basi storiche

Un filone narrativo molto importante è costituito dai flashback ambientati ad Auschwitz: una fiera delle più atroci sevizie, di sadismo e di crudeltà. La storia ricorda episodi quasi indescrivibili di malvagità (sempre che questo sostantivo renda ragione di ciò che avvenne), ma quelli mostrati in questa serie sono tutti inventati, mai avvenuti così come rappresentati.
David Weil, l’autore, ha conosciuto la Shoah dai racconti della nonna sopravvissuta e sostiene di aver letto quegli episodi «come storie in un fumetto, storie di scontri fra Bene e Male, e questa è diventata la lente attraverso cui ho visto l’Olocausto» (intervista su Enterteinment Weekly). Questo approccio fumettistico permane anche nella serie, folta di momenti leggeri e mutuati dal linguaggio dei comics degli eroi americani.

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Forse troppa fantasia?

Un dibattito sulle tematiche affrontate, e in particolare sull’invenzione di tutti gli episodi di Auschwitz si è ovviamente già aperto. Riguardo ad alcune scene (inventate) del primo episodio,  l’Auschwitz Memorial mette in guardia sul proprio profilo Twitter: «Inventare il gioco degli scacchi con esseri umani non è solo una pericolosa follia e una caricatura. Concede anche spazio a futuri negazionisti. Noi preserviamo l’accuratezza della realtà».
Il professor Aldo Grasso, sul Corriere: «Una serie, anche affrontando temi così delicati, ha diritto alla ricostruzione drammaturgica». Il dibattito è molto delicato e non è così semplice arrivare a una conclusione. Di certo si tratta di una serie TV da divano, non di un film impegnato; non ne consiglieremo di certo la visione agli studenti della scuola secondaria durante l’ora di storia. È una semplice serie TV, con qualche indugio di troppo su crudeltà e sangue, ma ce n’è di peggio. Originale il taglio da fumetto. Da vedere senza troppe pretese.

Una conclusione possibile: far conoscere senza mai confondere storia e fantasia

Forse uno dei possibili moventi dell’animo di chi indaga sui nazisti sopravvissuti e di chi elabora opere di fantasia sul tema è quello di far conoscere e, così facendo, riportare giustizia. Si può essere d’accordo o meno con la spettacolarizzazione degli episodi più bui della storia dell’umanità, ma una cosa è certa: più si conosce e ci si informa in merito, più si riporta giustizia ove è mancata. Ma non bisogna confondere storia e fantasia.